Ceglie Messapica: popolazione, società e famiglia
di Pasquale Elia
La consistenza numerica della popolazione cegliese, nei primi secoli dell’Età moderna, è necessariamente approssimativa. Per definire, infatti, l’evoluzione demografica bisogna rifarsi alle “NUMERAZIONI DI FUOCHI” che per talune epoche sono le uniche fonti disponibili di studio della popolazione. Le “NUMERAZIONI DI FUOCHI”, veri e propri censimenti in cui la popolazione non era computata per ANIME ma per FUOCHI, ossia per famiglie, erano effettuate esclusivamente a scopo fiscale. Il calcolo finale dei fuochi a noi pervenuto rappresenta solo il numero delle famiglie soggette a tassazione, con l’esclusione di talune frange di popolazioni non tassate, tra cui gli ecclesiastici, le vedove, le vergini in capillis, le bizzoche, gli inabili (cfr. B. Salvemini, Prima della Puglia, Terra di Bari e il sistema regionale pugliese in età moderna, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. Puglia, a cura di L. Masella – B.Salvemini, Torino 1989, p.120). E’ noto che fino alla riforma introdotta da Carlo di Borbone e sanzionata dal Concordato del 1714 tra Napoli e la Santa Sede, gli ecclesiastici e i loro beni non erano registrati negli apprezzi e pertanto sfuggivano ai pesi catastali (cfr. A. Massafra, Ceti e professioni a Bari nell’antico Regime, in Storia di Bari nell’antico regime, a cura di F. Tateo, Bari 1991, Tomo I, p.31). Conoscere l’aumentare numerico degli abitanti partendo dal numero dei fuochi vuol dire applicare un moltiplicatore, stabilire, cioè, un ipotetico numero medio di componenti per famiglia che ci darà solo a livello indicativo la consistenza numerica della popolazione. Ma quale moltiplicatore adottare? E’ questo, purtroppo, il grosso problema. Per restare a Ceglie, ritengo che si debba propendere per l’adozione di un coefficiente di moltiplicazione pari a 4,0, o al massimo a 4,5 tenendo conto con questo coefficiente anche della popolazione esentata dal pagamento delle tasse, che non compare nelle numerazioni dei fuochi. Secondo quella numerazione Ceglie contava, nel lontano 1532, fuochi 363, pari a 1634 abitanti, nel 1545, fuochi 456, pari a 2052 abitanti, nel 1561, fuochi 560, pari a 2520 abitanti, nel 1595 fuochi 589, pari a 2651 abitanti, nel 1669, fuochi 414, pari a 1863 abitanti (I fuochi sono stati tratti da: G. Arditi, La coreografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce 1879, p.139). Nel 1669 dunque i fuochi erano scesi a 414 con un decremento del 30% all’incirca e, in termini di popolazione, circa 788 unità in meno. Un dato è certo, a causa della grave crisi economica e sociale di metà Seicento culminata nella pestilenza del 1656-57, Ceglie subì un consistente decremento di popolazione [G. Arditi, cit. p.139; G. Magno, Storia di Ceglie Messapica, Fasano 1982, p.68; idem, 2^ Edizione, Fasano 1992, p.72; L. Gianfreda, Frak (sic) e Cangiarro, Ceglie Messapica 1992, p.131]. Quel XVII secolo, nel meridione d’Italia, è ricordato per le innumerevoli piccole e grandi siccità, per le carestie, per la moria di animali, e poi per il susseguirsi di morbi mortali, in particolare, di peste (1607, 1656-57, 1690-92), e la nostra città non fu certamente risparmiata da tutte queste calamità. Al di là di rilevazioni quantitativamente precise, resta il fatto che la peste del 1656 fu un episodio dolorosamente significativo nella storia della nostra città. Lo scenario di morte e di desolazione che avvolse la città era quello tipico che contrassegnava tutti i luoghi colpiti dalla peste. “……Quando alcuni anni fa potemmo accedere ai sotterranei ed ai cunicoli della Chiesa Madre, adibiti a sepoltura fino al 1885, uno spettacolo allucinante ci attendeva: dopo lunghe ed ininterrotte file di cadaveri che giacevano ordinati e composti nella solennità della morte, alcuni finanche mummificati, una enorme massa di morti, accatastati uno sopra gli altri, senza alcun ordine, alla rinfusa, si presentò alla nostra vista……così scrive Giuseppe Magno in Storia di Ceglie Messapica citata. La mortalità cominciò a declinare con l’inizio della primavera del 1657. Nel mese di aprile di quello stesso anno infatti si rese grazie a Dio con una solenne funzione nella Chiesa Madre per la fine del contagio. Con molta attendibilità devono essere state organizzate processioni penitenziali e di supplica in onore di S. Rocco perché liberasse la città dall’epidemia. Siamo a conoscenza infatti che il culto e la venerazione per quel Santo ebbe un’enorme diffusione proprio dopo la grande peste del 1656 e del 1690 (ASBr. Notaio Francesco Paolo Lamarina ,a.1690, C.132,INV.III.B.3.I.VI.23 (don G. Gallone, La Chiesa e la devozione di San Rocco a Ceglie prima del ‘900, in E’ ancora l’alba, Oria 1999, p.55).). Le indicazioni sulla consistenza demografica di Ceglie si fanno più precise nel XVIII secolo con le informazioni che ci sono pervenute dal Libro dello stato delle anime della popolazione di Ceglie compilato, nel 1800, dal Curato don Rocco Agostinelli. Documento questo redatto durante il periodo pasquale con finalità religiosa. Il Parroco infatti compilava lo stato delle anime. Si trattava, in buona sostanza, di un censimento di tutti i suoi parrocchiani al fine di valutare le “anime” tenute a ricevere il sacramento della comunione. Gli uomini, ma soprattutto le donne si sposavano giovani e dopo il matrimonio lasciavano la casa dei genitori e andavano a vivere per proprio conto. L’età media era di 20-22 anni circa per la donna e di 24-26 per gli uomini. Il futuro marito aveva la responsabilità a costituire una famiglia, la donna, casalinga, aspettava il momento opportuno per il matrimonio. Nel passato, vigevano delle regole dinastiche secondo le quali il primogenito maschio riceveva tutta l’eredità familiare, mentre gli altri figli, se maschi, erano indirizzati alla vita ecclesiastica o militare e, se femmine, erano destinate a restare nubili (in convento o in casa), e solo le più fortunate ricevevano la dote e si potevano sposare. Per tali motivi nascevano le misere figure come quella di Fra’ Fortunato, Cappuccino, il quale, sfruttava la ingenuità delle ragazze da marito [ASBr. Notaio T. Lamarina, a.1747, C.225-226-198/t. INV.III.B.3.1.X.6. (Per saperne di più su Fra’ Fortunato si rimanda al sito internet: www.ideanews.it/antologia/elia/avvenimenti.htm)]. Le
famiglie più povere non potendo provvedere alla costituzione della dote
cedevano le proprie figlie a servizio, a volte, vita natural durante,
nelle case di nuclei familiari benestanti.
E’ il caso di Grazia Ciracì che il 25 aprile 1572, si accordò
…per servire onestamente in casa della famiglia Alemanni ricevendo come
compenso vitto, alloggio et decenti funerali il giorno della sua morte (ASBr.,Notaio
Cornelio Vacca, C.125/T.INV.III.B.3.1.I 12), oppure, il caso di Ursula
Saracino che venne ceduta dal fratello Giovanni
Camillo in locazione al Dott.
Antonio Altavilla per servire a tutti i servigi di famiglia di sua casa
per sei anni continui (ASBr. Notaio Stefano Matera, 30.03.1603,
C.49/T.INV.III.B.3.1.II.39). L’ammontare della dote dipendeva da diversi fattori, in alcuni casi occorreva un grosso patrimonio per far sposare una figlia. In altri casi, e per fortuna erano molto rari, quando c’era stata la cosiddetta fuga d’amore, la famiglia dello sposo imponeva la cosiddetta legge. Questa consisteva nel pretendere dalla famiglia della sposa una dote più sostanziosa, in mancanza il matrimonio poteva anche non essere celebrato. Il sacramento del matrimonio infine veniva celebrato addirittura all’alba (alle cinque di mattina) e ad un altare delle navate laterali. Un fattore che caratterizzava la demografia di Ceglie nel passato era l’alta presenza di donne vedove, giovani e meno giovani. Il fenomeno della vedovanza femminile toccava punte molto alte per il semplice motivo che l’uomo aveva maggiore facilità di risposarsi. La possibilità di accedere alle seconde nozze vedeva e vede favorito l’uomo, per il semplice fatto che era il solo a cui era riconosciuto il dovere di provvedere con il suo lavoro al sostentamento della famiglia. La società riteneva riprovevole che una vedova si risposasse, mentre riteneva giusto anzi assolutamente necessario che un uomo rimasto vedovo con figli si risposasse e con donne molto più giovani. La mentalità meridionale del passato vedeva i ruoli ben definiti: le donne erano casalinghe e avevano il dovere di accudire alla casa e ai figli, mentre l’uomo lavorava per mantenere moglie e figli.
La funzione del nome è, sostanzialmente, quella di individuare e distinguere una determinata persona. La scelta compiuta dai genitori sul nome da attribuire al proprio figlio non è casuale, ma è sempre dettata da precise motivazioni. Il nome può essere scelto perché beneaugurate per la vita del neonato o perché si richiama a quello di un santo, molto spesso al santo protettore della città. Talvolta vengono rispettate le tradizioni familiari secondo le quali si tramandano i nomi dei nonni, poi quelli degli zii ed infine quelli di un fratello o di una sorella morti precedentemente. Tra i nomi maschili più diffusi a Ceglie troviamo: Rocco, Antonio, Giuseppe, Nicola, Gaetano, Giovanni, Domenico, Cosimo, Vito, Francesco, Pietro, Donato, Vincenzo. Per le femmine i nomi più ricorrenti sono: Anna, Angela, Antonella, Maria, Rosa, Caterina, Giulia, Francesca, Grazia, Isabella.
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