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L'articolo dell'Espresso sul Piano di riordino ospedaliero in Puglia.

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l'Espresso

12 Settembre 2002

 

SANITÀ / IL PIANO DI RIDUZIONE DEGLI OSPEDALI ITALIANI
Epidemia di chiusure
Fischi. Sputi. Insulti. Così la gente accoglie i tagli alle strutture locali. Ed è soltanto l'inizio

 di MARCO LILLO  

ERA CHI HA IL CORAGGIO DI ANdarlo a spiegare a Calogero Augello da San Cataldo? Quando lo hanno dimesso dopo un intervento alla prostata nel piccolo ospedale del suo paese, aveva salutato così i medici: «Se provano a chiudere il reparto vi prometto che lascio il negozio di colori e vengo in strada a protestare». Un gesto che per un commerciante siciliano con 66 primavere sulle spalle rasenta la rivoluzione. «È un gioiellino», si infervora lui, «le camere sono pulite, con due letti e il bagno appena piastrellato. I medici sono umani e preparati».

Eppure, per l'assessore regionale al bilancio Alessandro Pagano, quel gioiellino deve essere fuso con l'ospedale di Siracusa. «È politica», mastica amaro Calogero. I maligni notano che accanto al piccolo ospedale di San Cataldo esiste una clinica di proprietà di un signore che si chiama Francesco Virzì e ha una particolarità: è il cognato di Pagano. Ma l'assessore replica: «Quella clinica è sempre piena e non ha certo bisogno del mio intervento. Quanto a San Cataldo, vogliamo farlo crescere dandogli una nuova missione di centro oncologico, altro che chiusura».

Comunque vada a finire, la storia di Calogero e di San Cataldo è indicativa dei rischi della razionalizzazione ospedaliera in Italia. Rischi per i cittadini, che possono vedersi privati di un servizio efficiente senza una motivazione. Ma rischi anche per i governanti. La Casa delle Libertà rischia di bruciarsi le dita nel maneggiare con eccessiva disinvoltura una materia infiammabile come la salute. Di "Calogeri", disinteressati alle rogatorie ma pronti a trasformarsi in girotondini se gli toccano la prostata è piena l'Italia. E lo stanno scoprendo i governatori del Polo alle prese con le prime vere proteste di questo autunno caldo.

La storia della ristrutturazione degli ospedali dell'era Berlusconi inizia l'otto agosto del 2001, quando le Regioni si impegnano con il ministro dell'Economia Giulio Tremonti a tagliare le spese. Per non scrivere buoni propositi sulla sabbia, si fissa un limite da rispettare: quattro posti letto per ogni 1.000 abitanti, contro il cinque per 1.000 attuale. Parallelamente, si prevede un innalzamento dell'offerta per gli anziani e i malati a lunga degenza che hanno bisogno di strutture per la riabilitazione. Adeguarsi alla nuova legge significa per le Regioni tagliare 35 mila posti letto nel settore delle patologie acute e crearne pochi meno di 29 mila per le lungodegenze.

In questa opera di disboscamento le Regioni rosse sono in vantaggio. Hanno già tagliato 11 mila posti letto in cinque anni affrontando la rabbia di Comacchio e della Val di Chiana e ora si godono lo spettacolo dell'azzurro Raffaele Fitto alle prese con le mamme di Terlizzi, in provincia di Bari. Non va meglio al collega Enzo Ghigo in Piemonte, alle prese con le mamme di Domodossola e con 1.200 letti da tagliare nella Regione, che diventano addirittura 5 mila 400 per Formigoni in Lombardia, 2 mila 20 per Galan in Veneto, 3 mila per Cuffaro in Sicilia e 3 mila 500 per Storace nel Lazio.

Dove taglieranno? Nessuno si sbilancia. Di questi tempi è più facile ottenere una dichiarazione contro Berlusconi dai governatori della Cdl che il nome di un ospedale in bilico. Il presidente della Puglia è stato l'unico a mettere nero su bianco gli ospedali da cancellare e lo hanno ripagato con fischi, sputi e insulti da Terlizzi al Gargano. Ma l'onda lunga della protesta ospedaliera si sta estendendo dal Piemonte alla Sicilia. Comitati e siti internet a difesa degli ospedali minacciati nascono come funghi a Novafeltria e Pergola nelle Marche, in Lombardia per Bellano e Merate, e anche il Veneto è pronto a scendere in piazza per difendere Mezzaselva. In Sicilia il Tribunale dei diritti del malato ha organizzato una protesta in favore dell'ospedale di Noto che non si è fermata neppure ad agosto. «È una struttura migliore di quella vicina di Avola», spiega la responsabile siciliana del Tribunale Mimma Modica Alberti, «ma la Regione valorizza quest'ultima perché i parlamentari storicamente provengono da lì». Ogni riferimento al sottosegretario di An Nicola Bono, originario di Avola, non è puramente casuale. Grazie alle proteste, Noto è salvo, anche se sarà ridimensionato. Ma già si sta accendendo un nuovo fronte nel Lazio, dove il segretario della Cgil sanità locale, Tiziano Battisti, annuncia: «Un girotondo in ogni ospedale sarà uno dei compiti del sindacato per l'autunno».

Ma quali sono gli ospedali che rischiano la chiusura? E quale sarà il reale impatto sul servizio reso ai cittadini? "L'Espresso" ha tentato di tracciare una mappa dei tagli possibili sulla base delle valutazioni degli operatori del settore. In Puglia, l'unica Regione per la quale si delinea un quadro definito, si segnalano una serie di scelte irrazionali. La sete di risparmio di Fitto non ha per esempio tenuto conto che il reparto di terapia intensiva coronarica di Terlizzi era stato inaugurato da tre mesi. E nemmeno che quello di neonatologia aveva subito ristrutturazioni per 200 milioni di vecchie lire l'anno prima, o che i parti annui in questa cittadina superavano di gran lunga i tetto di 600 previsto dalla Organizzazione mondiale della sanità.

Difficile dare torto alle mamme che non hanno voluto ascoltare le motivazioni del presidente, quando per la prima volta si è presentato in auto blu a presentare il piano. Anche la scelta di privilegiare il nosocomio di Ostuni rispetto a quello di Fasano lascia perplessi. Fasano dispone di quattro sale operatorie inaugurate nel 2000 e di un'ala di cinque piani appena ristrutturata, dove si opera con tecniche moderne come la laparoscopia. Con l'aggravante del trasferimento a Ostuni, che dovrà accorpare oltre a Fasano, Cisternino e Ceglie Messapica, un ospedale vecchio al punto da non risponde alle normative igienico-sanitarie. Non va meglio a Gioia del Colle, in provincia di Bari, dove due sale operatorie, appena inaugurate, saranno chiuse perché il piano di Fitto prevede di privilegiare Monopoli.

Ma il picco di irrazionalità è un altro: nel piano di Fitto era previsto anche il taglio della senologia all'Oncologico di Bari: il fiore all'occhiello di un centro di eccellenza riconosciuto a livello nazionale. Per poter effettuare una mammografia nel "centro donna" di Bari si deve attendere fino al 2003, tanta è la richiesta. Solo grazie all'intervento del ministro della Salute Girolamo Sirchia, le forbici di Fitto sono rimaste a mezz'aria.

L'altra Regione che è già passata alla fase attuativa della razionalizzazione è il Piemonte. A Domodossola il taglio è stato brutale: «Gli operai hanno smantellato il reparto di pediatria, smontato la sala incubatrice e rimosso i bagnetti», dice l'infermiera sull'orlo delle lacrime. Va detto che i parti annui a Domodossola sono solo 464, sotto il tetto di 600 consigliato dall'Oms. «Ma sono numeri che devono essere calati nella realtà geografica», dice Flavia Salvagno, responsabile piemontese del Tribunale diritti del malato, «Le mamme della Val d'Ossola dovranno percorrere 80 chilometri per arrivare all'ospedale di Verbania. Lo stesso discorso vale per l'ospedale di Ceva, in provincia di Cuneo, dove esiste un centro di eccellenza di ostetricia che veniva usato anche dalle mamme liguri. Ora lo chiuderanno». I sindaci dell'alta valle Tanaro mercoledì scorso hanno fatto una manifestazione davanti all'ospedale di Ceva. Ma l'assessore alla Sanità della Regione Piemonte non fa una piega: «Mia moglie ha fatto 43 chilometri per partorire. Capisco la rabbia della gente ma non possiamo cedere, altrimenti si avvia una reazione a catena. Non c'è via di scampo: abbiamo preso un impegno con Tremonti e dobbiamo rispettarlo. E lo stesso dovranno fare le Regioni che hanno disavanzi ben maggiori della nostra. Altrimenti lo Stato farà bene a tagliare i fondi».

D'Ambrosio non lo dice ma pensa ai colleghi di Lombardia, Lazio e Campania. L'assessore alla Sanità del Lazio Vincenzo Saraceni ascolta paziente ma non fa il nome di nessun ospedale da chiudere: «Dovremo razionalizzare e accorpare gli ospedali dei Castelli romani. Non ha senso che nel raggio di otto chilometri ci siano cinque pronto soccorsi fotocopia. Inoltre quelli con meno di 30-40 letti devono diventare ospedali di comunità. Per le patologie gravi ci si dovrà rivolgere ai grandi ospedali che garantiscono standard più elevati». Secondo Saraceni sono destinati alla chiusura i piccoli ospedali di Terracina, Valmontone e Amatrice. «Anche se in questo caso lascerei il pronto soccorso perché siamo in zona di montagna».

Anche in Lombardia, nonostante le rassicurazioni del presidente Roberto Formigoni, si annunciano tagli pesanti. Il direttore generale della Asl di Sondrio, Emilio Triaca confida: «C' è l'ipotesi di chiudere Morbegno e Chiavenna, ma la condizione è che a metà strada si costruisca un nuovo ospedale. Capisco il legame della cittadinanza, ma la Sanità dal 1992 è Azienda Sanitaria: non possiamo fare assistenzialismo».

In Veneto il piano sanitario prevede la chiusura di tre ospedali (Soave, Mezzaselva e Valeggio) oltre al geriatrico di Padova. A Mezzaselva, a difesa di un piccolo ospedale appena ristrutturato che aveva raggiunto un ottimo livello nella riabilitazione ortopedica e neuromotoria, è sorto un comitato di cittadini. Ma forse a salvarlo saranno i capitali privati. Una strada praticabile dove l'impresa è in grado di sostituire lo Stato.

La Campania, tra le giunte rosse, è quella che sta peggio. «Dobbiamo fare fronte a un buco di oltre 3 milioni di euro», ammette l'assessore alla Sanità Rosalba Tufano, «ma non vogliamo chiudere ospedali. La riduzione dei posti letto sarà minima perché dobbiamo scendere da 4,2 letti per 1.000 abitanti a quattro». Inutile chiedere conferma sulle chiusure paventate degli ospedali di Polla, Sant'Arsenio ed Eboli nel salernitano. L'assessore non conferma e non smentisce. Dal canto suo l'assessore alla Sanità del Piemonte, D'Ambrosio, sorride. Vanta origini campane e conosce i suoi polli: «Dovranno tagliare anche loro. Affrontando i costi politici che questo comporta. Il presidente diessino della Toscana mi ha confidato che alle ultime elezioni erano certi di perdere quattro punti percentuali per via del taglio dei piccoli ospedali. E così è stato. Bisogna mettersi l'anima in pace e affrontare le riforme consapevoli del loro costo politico». Chissà se qualcuno ha ricordato all'assessore che in Piemonte Ghigo ha vinto con il 52 per cento.

(hanno collaborato David Perluigi e Dina Lauricella)

12.09.2002

 

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