Mistero
su un rogito custodito nella biblioteca De Leo
di Pasquale Elia
Ho voluto studiare con molta attenzione il testo del documento del XIV sec. (si dice). L’attestato in questione necessita una duplice disamina: quella diplomatistica [per appurare l’autenticità e per analizzare l’atto nei suoi aspetti formali, come le dimensioni della pergamena (in realtà è un foglio di carta), lo stato di conservazione, i caratteri], e quella contenutistica (per identificare i personaggi ed il contenuto).
E’ giusto rammentare che questa forma è utilizzata dai notai dei nostri giorni. Da notare che anche i notai ecclesiastici usavano la stessa identica fraseologia. Devo precisare che il foglio che stiamo analizzando è integro in ogni sua parte, non possiamo pertanto considerare perduta la data a causa di danni allo stesso. Il documento non è una copia autenticata, tutt’altro, è invece un semplice foglio di carta (cm. 29x 41 all’incirca) abbastanza consistente, del tipo dell’odierno cartoncino, ripiegato in quattro parti, ben conservato, scritto in latino con inchiostro nero, calligrafia normale con molteplici contrazioni e ghirigori molto in voga all’epoca e rimasti in uso fino ad inoltrato XIX secolo. Le varie firme dei testimoni sono tutte state poste con la stessa mano, ossia tutto l’atto, firme comprese, è stato scritto dalla stessa persona. Altri elementi che non convincono sono primo fra tutti la materia oggetto dell’accordo (compra-vendita di diritti feudali) tra le due parti (Pino, Arcivescovo di Brindisi e Oria ed il miles Francesco di San Severino), alquanto strana per l’epoca (tarda età angioina) e, tra l’altro, quell’accordo non risulta abbastanza chiaro. Il Sanseverino e i suoi eredi e successori non potrebbero impetrare (il regale) assenso perché senza quell’ assenso la vendita non sarebbe valida.
L’atto proviene dalla cancelleria del Sanseverino o da quella dell’arcivescovo? A quanto di mia conoscenza fu rinvenuto nell’archivio della Curia brindisina. E se fosse davvero un atto notarile, (archiviato come atto n°55, fasc. 24, anno 1361, Biblioteca A. De Leo in Brindisi), perché non esplicita nel testo, come di regola, il nome del notaio estensore dell’atto? Infine manca il “signum tabellionis” ossia il sigillo notarile. Mi viene da pensare quindi che potrebbe non essere un “publicum istrumentum”, anche se nell’atto è riportato testualmente “….pubblico contratto di vendita…..
Il carlino, infatti, moneta d’oro e d’argento, fu coniato nella zecca di Napoli da Carlo I d’Angiò, nel 1278. Quello d’oro, pesava gr. 4, 44 e valeva 14 carlini d’argento (Enciclopedia Italiana, Istituto della enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Milano-Roma 1931, vol. IX, p.31; Grande Enciclopedia De Agostini, Novara 1996, vol. V, p.461; P.Elia, Note di Metrologia, Monete, pesi e misure in uso nei secoli XVI-XIX, in Andare per proverbi, a cura di Enrico Turrisi, Mesagne 2000, p.137; www.ideanews.it/antologia; Chiara Piccolo Giannuzzi, Fonti per il barocco leccese, Congedo Editore, 1995). E perché i fiorini? Il fiorino era una moneta fiorentina coniata per la prima volta in argento intorno al 1180. Fu anche coniata in oro, nel 1252 e fino al 1553 (gr.3,53 ca), si diffuse in tutto l’occidente come una moneta internazionale. L’uso del magnificus non ha riscontri nel ‘300. Venne diffusamente usato durante il periodo rinascimentale, mentre il documento vorrebbe essere del tardo periodo agioino (1361). Non potrebbe trattarsi di un atto, per esempio, manipolato ad arte negli anni successivi per tutelare eventuali interessi della Chiesa brindisina nelle terre della Contrada di Ceglie del Gualdo? (Così viene indicata Ceglie nel supposto rogito). Operazioni del genere non sono stati infrequenti nei secoli passati, tutt’altro.
Mi
preme precisare però che i personaggi citati nel documento sono tutti
storicamente vissuti in quel periodo.
Devo ritenere che trattasi di quel Francesco Sanseverino, signore di Nardò (1409), figlio di Guglielmo Sanseverino, signore di Policastro, Sansa, Padula e Montesano (a sua volta figlio ultrogenito del grande Tommaso II Sanseverino, conte di Marsico Nuovo in Basilicata, vissuto tra gli ultimi decenni del ‘200 e i primi del ‘300). Quel miles Francesco, dunque, fu un cadetto del grande ramo dei Sanseverino, conti di Marsico (cfr. Vittorio Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano 1932, p.105). Nella storia di Nardò [Civitas Neritonensis, la storia di Nardò di Emanuele Pignatelli ed altri contributi (a cura di) Marcello Gaballo, Congedo Editore, Martina Franca, 2001], il personaggio in questione è sconosciuto, ma viene citato il figlio Luigi (fu signore, infatti, di Nardò nei primi anni del 1400, morì nel 1435), e il figlio di costui Tommaso, nel 1438, dovette fuggire dalla città perché assalito a tradimento (Marcello Gaballo, cit. pp.67-68). Altri studiosi riferiscono che Francesco Sanseverino non ebbe figli dalla moglie Isabella. Il
miles Francesco Sanseverino,
proprio perché non poteva ereditare la titolarità dei feudi
(“potens vir”), per garantirsi comunque degli introiti,
acquista quei diritti feudali che l’arcivescovo aveva nella Contrada
di Ceglie con i suoi uomini e
vassalli, selve, boschi, acque, pascoli e loro pertinenze, ipotecando
a sua volta i diritti, frutti,
redditi e proventi del Casale di Borgagne (?) con
uomini e vassalli, diritti e pertinenze sue, che detto signor Francesco
da parte della signora magnifica donna Isabella, consorte dello stesso
signor Francesco, aveva, teneva e possedeva nel [territorio]di Otranto.
Aggiornato il 31/03/2003
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