Gastronomia cegliese, arte che viene da lontano
E' risaputo che i Messapi, nostri antenati, erano degli
ottimi allevatori, soprattutto, di ovini. E proprio per questo motivo la
tradizione paesana vuole che la nostra arte culinaria sia basata sulla
preparazione di carni di capretto o di agnello. Il
piatto principale locale a base di carne, infatti, è proprio il
capretto o l'agnello cotto alla brace, al ragù, al forno, brasato, ecc.
E che dire della pecora in umido, la cosiddetta cipuddàt'. Trattasi della carne di pecora in brodo con tanta
cipolla, patate, pomodori, sedano e vari aromi.
La cucina nostrana è sicuramente genuina, originale e gustosa,
ricca di odori: basilico, origano, alloro, capperi. Essa è imperniata
sui prodotti assai saporiti dell'agricoltura locale, in special modo le
verdure, l'olio di oliva, il vino, le mandorle.
Non molte città possono far risalire a oltre 3000 anni fa le
proprie tradizioni gastronomiche. Ceglie deve essere molto orgogliosa di
questa sua prerogativa. E' un privilegio che non tutte le città
meridionali possono vantare.
Nella cucina nostrana possiamo notare che dell'animale macellato
e destinato a sfamare veniva e viene tuttora, fatta eccezione per alcune
parti, soprattutto da quando è stato chiuso il macello comunale,
utilizzato tutto o quasi.
I nostri nonni avevano imparato a proprie spese, nessuna parte
dell'animale doveva essere buttata, neanche le cosiddette estremità
(piedini, orecchie, muso, codino di maiale, testine di capretto o di
agnello, testicoli di vitello, ecc.). Pure
il sangue dell'animale veniva recuperato. Da quello del maiale veniva,
per esempio, confezionato il cosiddetto sanguinaccio. Prelibatezza
esclusivamente nostra. Esso veniva preparato dalla moglie del macellaio
con l'aggiunta di aromi vari e gustato soprattutto caldo caldo nel suo
budello direttamente nella cosiddetta Vucciarìa
(macelleria). Era di una squisitezza più unica che rara. Peccato
che è stato eliminato, diremo a giusta ragione, dal commercio! Dal
pollo, che sgozzato in casa da tutte le buone e coraggiose massaie di
una volta, si raccoglieva il sangue, il fegato, il cuore, ecc. con cui
si preparava un soffritto che diventava uno stuzzichino di appannaggio
per grandi e piccini. Fegatini
di capretto o di agnello (gnummarièdd') avvolti con l'intestino degli stessi (li
'ntram'), involtini di trippa
in brodo, ed altro, insomma bocconcini davvero gustosi e prelibati, da
intenditori, non c'è che dire. Alcuni
buongustai, anche di altre regioni italiane che hanno gustato i nostri
piatti, usano additarli ad amici e conoscenti addirittura con
l'appellativo di bocconi di cardinale. Altri
prodotti nostrani di cui dobbiamo essere molto fieri, soprattutto in
questo ultimi tempi in cui tanto si parla di dieta mediterranea, sono
l'olio extravergine di oliva e il vino, elementi fondamentali nella
cucina pugliese, in genere, cegliese, in particolare. Negli
anni passati tutti coloro che possedevano un piccolo terreno (nel
dialetto locale: u'
foor') curavano con tanto amore alcune viti, tanto quanto
potevano essere sufficienti a produrre alcune centinaia di litri di vino
da tenere in casa per la stagione invernale. A
fine settembre, raggiunta la giusta maturazione, l'uva veniva
vendemmiata da parenti e amici appositamente invitati per l'occasione.
Era una giornata di allegria e di festa per tutti, specialmente per i
bambini, i quali poi si divertivano a pigiare l'uva, a piedi nudi, nel
palmento (meglio conosciuto: palummiend'). Il
palmento era una vasca abbastanza larga e poco profonda in mattoni o in
cemento, a volte scavato nella roccia impermeabile, usato per la
pigiatura e la fermentazione del mosto. Il
vino ottenuto, a volte, di grado alcolico abbastanza elevato (14°-15°),
veniva fatto fermentare, di solito, nelle giare in creta, meglio noti, capasoni. Nei
mesi invernali, il vino in eccesso al fabbisogno famigliare, ricevuta
dalle autorità annonarie l'autorizzazione, veniva venduto, di solito,
nelle stesse abitazioni e come segno di riconoscimento, si appendeva
sulla porta un ramo di alloro, detto pannèl'. Gli
uomini la domenica o i giorni festivi si incontravano in quelle
abitazioni, dove trascorrevano gran parte del pomeriggio e della sera a
giocare a primèr' o primièr' e a
bere vino. Il cantiniere, per aiutare gli avventori a consumare più
vino, faceva preparare dalla consorte alcune pietanze, un po' più
pepate e salate della norma quali: purpiètt' puvurièdd', gnumarièdd' di tripp' in brod', tripp' cu' li
fasùl', past' j cicir', rabbicol' suffucàt', cas'punt' cu lu pan'
fatt'a'cas', pan' e ricott'ascquand', dòl-gh' cu lù ris'. Nella
nostra cucina tradizionale fa ancora capo un piatto che, secondo alcuni
studiosi, risalirebbe addirittura ad almeno seimila anni fa. Trattasi
del cosiddetto grano
cotto che alla paesana maniera suona gran'pisàt'. E' il chicco
di grano che, con un particolare procedimento, viene spogliato della sua
pula, lessato in abbondante acqua salata, condito con cacioricotta e
pomodoro, meglio se con una spruzzata abbondante di formaggio pecorino e
possibilmente ragù con carne di maiale. Tra le minestre sono da ricordare le fav' (purea), scarfàt'
ijnt' a lu' tiest', servite con pipicannèdd'
piccinn' (a Napoli: friarielli) fritti con o senza pomodori, fogghj
sciers', rabbicòl', cicuredd', alij matur', pipicannèdd' sottacit', cipodd'
e, a secondo delle stagioni, juv',
pèr', cucuzza addilissàt' con menta e aceto, jov'rutt' a' l'acqu', vampasciùn
fritti, l'fav'spuntàt'. Non possiamo dimenticare u'
pan'cuètt'. Sono fette di pane raffermo condite con olio dopo
la cottura in acqua con verdure miste e patate; infine, le fris' o frisèdd' condite
con uèggh',
sal',
pum-dòr', arièn' e ammorbidite in acqua. Non
possiamo assolutamente dimenticare le rinomate e ormai ricercate stacchiodd'
(italianizzate orecchiette), "fatte a mano in casa"
con farina bianca di grano duro oppure del tipo integrale (gruess'),
condite con cacioricotta (in alternativa: pecorino o parmigiano), pummdòr'
e basinicòl'. Molto
famosi e, da qualche tempo ritornati, prepotentemente, alla ribalta nel
periodo natalizio, sono i fichi seccati al sole, ripiene con mandorle e
poi cotti al forno (fich'
maritàt'). E, come in tutte le cose, si formano poi delle
varianti. Alcuni, per esempio, aggiungono della scorzetta di limone,
altri, quando i fichi sono ancora caldi, appena tirati fuori dal forno,
vi spolverano sopra cioccolato in polvere. Ma le nostre nonne
aggiungevano quello che trovavano sul luogo di coltivazione, cioè,
finocchietto selvatico. Il cioccolato, allora, era inesistente, o se
venduto nelle drogherie era, certamente, inaccessibile per le tasche dei
più.
L'astro era ed è certamente la mandorla, la quale intera,
tritata, macinata, tostata, trova sempre sistemazione in tutte le
ricette. Dai biscotti tradizionali cegliesi (puscuèttl'), ricoperti di
zucchero e cacao o solo zucchero (cilèpp'), alla pasta reale dallo
squisito e delicato sapore.
Una volta, non tanto lontano, poi, era tradizione, nelle
ricorrenze importanti (matrimoni, battesimi, cresime), venivano
distribuiti a parenti ed amici, caratteristici dolcini
confezionati con mandorle tritate, zucchero e miele ed innaffiati
da ottimo rosolio artigianalmente, preparato in casa.
Mi dispiacerebbe dimenticare l'
pettl', l' purciddùzz', l' cartiddàt', noti a tutti. UNA RICETTA -
Cicir' - fasùl' - dol gh':
si mettèvn' a bagn' a ser', a matìn' dopp', si cambiàv' l'acqu',
si mittèvn' jint' a pignàt' vicin' a lu' fuech', si fascevn' ferv'. A
mez' cuttùr', si sculàvn' e si cunzàvn' cu la cipòdd', pumdòr', l'agghji',
a frasch' d' lor e lu finùcch' scièrs'.
Quann' si mangiavn' si miscàavn' cu nu picch' d' past' o d' ris'
e uegghj d'alij.
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