Giovanni Pockar, profugo italiano in Patria La vicenda umana di uno sloveno vissuto a Ceglie
di Angelo Palma
Proponiamo una toccante testimonianza di Angelo Palma, il quale descrive con delicatezza e sofferenza la vicenda umana di Giovanni Pockar, un profugo sloveno giunto a Ceglie Messapica nel dopoguerra, mai integrato nella città nonostante l'aiuto di colleghi e datore di lavoro del molino "Lodedo" e morto in solitudine nel 1960. L'articolo è stato pubblicato sul numero di aprile di "Ceglie plurale".
Chi era Giovanni Pockar (il cognome si pronuncia con la “c” dolce e non semplicemente Pokar)
Lo conobbi da bambino quando lavorava presso l’azienda gestita dalla mia famiglia, “ Il Molino Elettrico Lodedo ” in via Roma, primo mulino a Ceglie con quel tipo di azionamento, dopo i precedenti a vapore. Giovanni veniva chiamato dagli adulti “Giovanni il profugo” e dai ragazzi “Giovanni la farina”. Era un grande lavoratore. La sua figura suscitava in me contemporaneamente timore e curiosità : timore, per i modi burberi, la voce alta, la corporatura imponente, alto quasi 1,85 m; curiosità, perché era un diverso. Taciturno, borbottava spesso qualcosa, pronunciava l’italiano con accento particolare, salutava dicendo “Alah”. Era sempre sporco di farina e vestiva trasandato anche di domenica. Non aveva amici, era separato dalla moglie. Non usava mangiare nel piatto, ma direttamente nelle pentole, a mo’ di gavetta, preferendo pasta e fagioli, amava bere molto. Era emarginato da tutti e deriso da molti. Infine non era considerato italiano, ma slavo. Ma Giovanni andava capito. Era nato nel 1906 da contadini poveri a Mahnici, un villaggio a nord del Carso sul torrente Rasa (pronuncia Rascia), affluente del Vipacco, a sua volta immissario dell’Isonzo, in una valle ricca di mulini e di svariata vegetazione, terra dell’impero austro-ungarico abitata da sloveni. Aveva conosciuto tutte le vicissitudini della prima guerra mondiale e, dopo l’armistizio del 4 novembre 1918, aveva assistito all’arrivo dell’esercito italiano nella propria terra. Aveva patito la carestia del 1919. Non so se la madre ed il padre (Ivana Jamsek ed Ivan Pockar) sopravvissero a tante sofferenze. Giovanni non ne parlava mai. Dopo il 1918 il nome del suo villaggio era stato italianizzato in Machinici insieme a quello di altre località, come la vicina Stjak diventata S. Giacomo in Colle. L’intera zona era confluita nella provincia di Gorizia e dal 1923 nella provincia unificata del Friuli, perdendo tra l’altro tutte le scuole non italiane. Giovanni si era adattato a vivere in questo ambiente mutato, iniziando a sentirsi di nazionalità italiana. Con tali sentimenti e con l’intento di uscire dalla miseria, a vent’anni, si era arruolato nell’Arma dei Carabinieri per girare in lungo e in largo per l’Italia: Torino, Roma, Trieste, Padova, Firenze, dove aveva soggiornato per cinque anni e conosciuto una ragazza sarda che sarebbe poi diventata sua moglie, ed infine Palermo, dove si era congedato per il desiderio di ritornare nella sua terra.
Ed in effetti era rientrato nel suo villaggio di Mahnici nel 1939 per sposarsi con Iolanda Pisola, nativa di Pau, un piccolo paese attualmente in provincia di Oristano, e per trascorrervi una serena e felice vita di campagna.
Ma improvvisamente si alzarono anche in Italia venti di guerra. A fine maggio del 1940 Giovanni fu chiamato alle armi e nuovamente arruolato nei carabinieri, per partecipare a diverse operazioni della seconda guerra mondiale su vari fronti, fra cui quello greco-albanese.
Furono anni difficili per le sofferenze provocate dal conflitto e la lontananza dalla moglie. Ma ad un certo punto arrivò l’ 8 settembre del 1943. Giovanni capì il pericolo ed insieme con Iolanda riparò in Puglia, dove prese in fitto una campagna nel territorio di Ceglie, sulla via per S. Michele.
Nel 1945 nella sua terra di origine arrivarono le truppe del maresciallo Tito per darle una parziale indipendenza, ma non la libertà, incorporandola nella Slovenia, repubblica della Federazione Yugoslava.
A guerra finita, avrebbe potuto Giovanni, uno slavo che ormai si sentiva italiano ed era stato nella nostra Arma dei Carabinieri, rientrare in Slovenia? No, con quel regime! Lo avrebbero sicuramente considerato un traditore . Avrebbe potuto l’Arma riprenderlo nei suoi ranghi? Io penso di sì, ma non lo fece, probabilmente per validi motivi.
E così questo poveruomo pensò di trovare una occupazione presso il mulino Lodedo dove, come addetto alla movimentazione dei sacchi di grano e farina, rimase per sedici anni.
L’ambiente di lavoro non era dei migliori : il rumore assordante, l’aria satura di farina ma la paga accettabile. Altri dipendenti con mansioni più tecniche, come Cosimo Marinosci e Pietro Elia, godevano di una buona reputazione sociale, ma Giovanni a Ceglie non riusciva ad inserirsi.
Abitava in una casetta a piano terra in Via Pasquale Gatti, della stessa proprietaria del mulino, Donna Rosina Lodedo. In questa dimora ebbe da Iolanda una figlia, Maria, che visse soltanto un mese e mezzo, e forse un altro bambino partorito morto.
Giovanni rimase traumatizzato da questi episodi che lo portarono nello stato nel quale lo conobbi io. Fu poi abbandonato dalla moglie, malgrado tentativi di riconciliazione da parte di mio padre.
Cominciò allora a frequentare più spesso l’osteria di Via Orto del Capitolo, anche per la necessità di dover mangiare qualcosa, uscendone sempre più ubriaco. A nulla valsero i tentativi di dargli una sistemazione diversa. E così la sua emarginazione sociale crebbe enormemente.
Passarono alcuni anni. Era un primo pomeriggio di agosto del 1960. Allora non c’erano i telefoni privati. Qualcuno bussò vigorosamente alla porta di casa per avvertirci che Giovanni era in ospedale. Aveva avuto un infarto. Io e mio zio ci precipitammo al vecchio Convento dei Cappuccini.
Quando arrivammo, Giovanni era steso inerte su una gelida lastra di marmo. Ne rimasi profondamente sconvolto. Mio zio pianse.
Mio padre si interessò per dargli una dignitosa sepoltura in una tomba di marmo di Carrara . Molti anni dopo moriva ad Iglesias anche Iolanda.
Sono passati quarantaquattro anni dalla scomparsa di Giovanni Pockar, ma non è tardi perché tutti noi manifestiamo verso quest’uomo il rispetto e la comprensione che non gli furono riconosciuti in vita, soprattutto per la sua diversità ed il suo desiderio di sentirsi italiano.
Pubblicato 8 maggio 2004
Angelo Palma ap.palma@virgilio.it
Torna all'indice dell'Antologia
|
|